Riflessioni da articoli e riflessioni personali. A cura di Serena Fuart
La strage di Parigi lascia un'onda di dolore profondo e di assillante angoscia che sfocia da qualche giorno in comprensibilissime psicosi collettive e falsi allarmi.
Ma il massacro di civili, che sono sempre innocenti ed estranei agli interessi di organizza e semina morte, non riguarda solo Parigi...attentati, sparatorie, inaudibili violenze si consumano e si sono consumate in passato ma anche molto recentemente per stessa mano, l’unica differenza con Parigi è la collocazione geografica, più distante da noi occidentali. I media main stream ne parlano certo, ma non con lo stesso orrore e allarme, facendole passare come stragi ormai "di routine" che si consumano inevitabilmente là...lontano da noi e noi, occidentali non possiamo fare niente. Ma chiaramente non è così.
MA CHE ORIGINE HA QUESTA o QUESTE STRAGI?
Fiorella Cagnoni, scrittrice e prestigiosa intellettuale femmininista mi segnala un articolo al link
http://www.limesonline.com/parigi-il-branco-di-lupi-lo-stato-islamico-e-quello-che-possiamo-fare/87990
"Siamo in guerra? La guerra certo esiste, ma principalmente non è la nostra. È quella che i musulmani stanno facendosi tra loro, da molto tempo. Siamo davanti a una sfida sanguinosa che risale agli anni Ottanta tra concezioni radicalmente diverse dell’islam. Una sfida intrecciata agli interessi egemonici incarnati da varie potenze musulmane (Arabia Saudita, Turchia, Egitto, Iran, paesi del Golfo ecc.), nel quadro geopolitico della globalizzazione che ha rimesso la storia in movimento.
Si tratta di una guerra intra-islamica senza quartiere, che si svolge su terreni diversi e in cui sorgono ogni giorno nuovi e sempre più terribili mostri: dal Gia algerino degli anni Novanta alla Jihad islamica egiziana, fino ad al-Qaida e Daesh (Stato Islamico, Is). Igor Man li chiamava “la peste del nostro secolo”.
In questa guerra, noi europei e occidentali non siamo i protagonisti primari; è il nostro narcisismo che ci porta a pensarci sempre al centro di tutto. Sono altri i veri protagonisti.
L’obiettivo degli attentati di Parigi è quello di terrorizzarci per spingerci fuori dal Medio Oriente, che rappresenta la vera posta in gioco. Si tratta di una sorta di “guerra dei Trent’anni islamica”, in cui siamo coinvolti a causa della nostra (antica) presenza in quelle aree e dei nostri stessi interessi. L’ideologia di Daesh è sempre stata chiara su questo punto: creare uno Stato laddove gli Stati precedenti sono stati creati dagli stranieri quindi sono “impuri”.
E' anche vero che l'Occidente non è poi così innocente.
MARINA TERRAGNI, giornalista, autorevole di quotidiani e riviste, intellettuale femminista intervista Luisa Muraro e nel suo blog IO donna pubblica queste parole:
“La filosofa Luisa Muraro, che con lei è in relazione politica da anni, sui temi affrontati nell’articolo: Isis, Occidente, condizione delle donne. Partiamo dall’inumanità e dalla ferocia dei jihadisti, che secondo Aïcha sono “il prodotto di un’accumulazione storica di ignoranza e di frustrazioni… conseguenze di una lunga serie di aggressioni e umiliazioni subite dal mondo arabomusulmano fin dai tempi della colonizzazione; del sostegno occidentale ai regimi corrotti e tirannici nella nostra area (Saddam Hussein, Gheddafi, fintanto che servivano i loro interessi!); della rapina delle ricchezze di questi paesi da parte delle multinazionali;del perdurare dell’occupazione israeliana e del massacro della popolazione palestinese; della guerra in Afghanistan, di quella in Iraq, di quella in Libia… Senza dimenticare che l’islamismo radicale è anche una creatura degli Stati Uniti ai tempi della guerra fredda contro l’ex-URSS: Bin Laden era stato armato da loro”.
Marina: La chiave, dunque, per Aïcha è l’umiliazione. Analisi sulla quale si può facilmente concordare. Ma la diagnosi non costituisce una terapia: che cosa si deve fare per fermare Isis e le sofferenze che provoca? Luisa: . Il lavoro di Aïcha è provare a contenere e impedire il contagio del fanatismo tra i giovani maschi del mondo arabo musulmano, sia tra quelli che vivono in quei paesi sia tra i figli di immigrati nei nostri paesi. Lei lotta insieme a molte altre donne e uomini perché valga un’interpretazione più giusta dell’Islam e delle parole del profeta Maometto, contro la lettura fanatica e la rabbia vendicativa, peraltro già esplicitamente condannate da svariate autorità religiose
MA I KAMIKAZE, LE KAMIKAZE, CHI SONO?
Giovani che non ci stanno al vuoto di valori, che vedono l'occidente come un deriva che porta a solitudine e depressione...sono giovani che vogliono credere in qualcosa e vengono plagiati da una cultura della morte.
ecco cosa dice sempre Marina Terragni:
http://blog.iodonna.it/marina-terragni/2015/01/14/kouachi-coulibaly-e-gli-altri-perche-a-quei-ragazzi-non-piace-piu-loccidente/
“Dunque rap, birra, sesso, probabilmente canne, scarse prospettive: la vita media del giovane occidentale metropolitano. Poi un incontro che ha a che fare con le proprie radici, un passato che si spalanca come possibile futuro, l’adrenalina di un’identità vincente per cui combattere, il sogno del Grande Islam che vendica le umiliazioni subite dall’Occidente (Abu Ghraib ricorre come un’ossessione nelle biografie dei “martiri” parigini), le esercitazioni militari, il jihad.
Le storie dei foreign fighters si somigliano un po’ tutte.
E se, con discreto ritardo, si sta pensando a una superprocura europea, se le immagini della macchina della polizia che ingrana la retro di fronte ai kalashnikov dei guerriglieri Kouachi danno precisamente il senso dello sbigottimento, della sorpresa di fronte a un impensabile atto di jihad nel cuore d’Europa, chi lavora con la cultura e non con le forze dell’ordine a mio parere ha un altro compito: capire perché il modello occidentale, e segnatamente l’american way of life, il mito della frontiera raggiungibile da tutti, il sogno americano che ha trainato le speranze e i progetti generazioni di donne e di uomini, per queste giovani donne e per questi giovani uomini non funziona più. Perché gli viene preferito ben altro sogno.
Qui riproduco più o meno quello che dice Mr White, americano del New Mexico protagonista di “Breaking Bad”, una tra le straordinarie serie tv (“True Detective”, “Fargo”) che danno forma al nuovo romanzo americano. Mr White si ritrova in un bel casino, intrappolato in un camper con le batterie esauste e senza una goccia d’acqua nel bel mezzo del deserto: sta crepando. Sdraiato senza forze sulla branda, Mr White dice che è tutta colpa sua, che avrebbe dovuto pensarci prima, che è lui stesso responsabile della situazione in cui si è ficcato. Me lo sono meritato. Mi merito quello che mi capita. Un monologo paradigmatico -andrebbe ascoltato- insieme al resto: in tutte le serie, deserti e praterie senza frontiere né miraggi, spaesamento, perdita di ogni riferimento, solitudine, disastro delle relazioni -siamo il Terzo Mondo delle relazioni-, Dio che si affaccia qua e là come una possibilità.
L’America per prima dice che il suo sogno è finito: per loro, per noi, per tutti. E che ci vuole qualcos’altro da sognare. Un giovane occidentale, coetaneo dei foreign fighters, l’altro giorno mi diceva: “Qui non conta più niente: la famiglia, l’amicizia, i minimi valori. Solo i soldi. E i soldi non ci sono più”.
Ascolto con attenzione, mi chiedo quale sogno dovremmo metterci a sognare. Qualche vaga idea ce l’ho.
Ma mi chiedo anche se i giovani guerrieri, scaricata l’adrenalina e finita la droga del jihad (per il potere), ipoteticamente raggiunto il loro obiettivo dichiarato (Dio non voglia), il Grande Islam che domina il mondo, la sharia come legge universale con tutto ciò che ne consegue, poi in quel mondo ci si troverebbero davvero a loro agio: loro, nati e cresciuti bene o male liberi, nelle periferie di Parigi, Berlino e Milano, come starebbero in quel mondo di ubbidienza, oppressione, illibertà? Forse bisognerebbe insinuargli il dubbio.”
Ma la guerra, il sangue la violenza NON RISOLVE NULLA. Non esiste una guerra in nome della pace. Ce lo insegna la guerra in Iraq dopo l'11 settembre. Non solo non si è risolto nulla ma ...
Leggete un po’ qui: http://www.huffingtonpost.it/2013/03/20/iraq-dieci-anni-fa-linvasione_n_2913487.html:
"Il 20 marzo di dieci anni fa aveva inizio la Seconda Guerra del Golfo. L'invasione dell'Iraq da parte della Coalizione guidata dagli Stati Uniti, definita dagli oppositori del conflitto in tutto il mondo, la "guerra del petrolio".
L'obiettivo dichiarato, a un anno e mezzo dagli attacchi dell'11 settembre 2001, era la fine del regime di Saddam Hussein, accusato di volersi dotare di armi di distruzione e di legami con il terrorismo islamico. Molti alleati degli Usa, la Francia in testa, si rifiutarono di partecipare all'intervento in mancanza di un chiaro mandato da parte dell'Onu.
"Gli Stati Uniti - affermò Samir Sanbar, ex sottosegretario generale dell'Onu per l'informazione pubblica - non hanno avuto bisogno delle Nazioni Unite per andare in Iraq, ma ne hanno avuto bisogno per andarsene". Nel giugno del 2004, il consiglio di sicurezza adottò la risoluzione 1546, principalmente su richiesta di Gran Bretagna e Stati Uniti, per mettere formalmente fine all'occupazione americana in Iraq ed autorizzare l'istituzione di una forza multinazionale, guidata da Washington.
Come spiegò nel 2003 l'allora presidente Usa, George W. Bush, l'intento dell'operazione militare era di "disarmare l'Iraq, liberare i suoi abitanti e difendere il mondo da un serio pericolo". L'operazione, sottolineò Bush, era finalizzata ad assicurare "che i cittadini degli Stati Uniti ed i nostri amici ed alleati non vivano alla mercè di un regime fuorilegge che minaccia la pace con armi di distruzione di massa". Nel gennaio nel 2002, Bush aveva definito l'Iraq, l'Iran e la Corea del Nord come l'"asse del male".
Poco più di un anno dopo, a febbraio, Colin Powell, al tempo segretario di Stato americano, fornì al consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite le prove secondo cui Baghdad stava continuando a lavorare alla costruzione di armi per la distruzione di massa e manteneva legami con organizzazioni terroristiche, ingannando sistematicamente gli ispettori delle Nazioni Unite.
Ma l'anno seguente fu proprio un rapporto del Senato Usa a riferire che gli elementi usati per il discorso di Powell furono ampiamente "ingigantiti, fuorvianti e sbagliati". Secondo gli esami delle autorità statunitensi non c'era una prova formale della cooperazione tra Saddam Hussein e al-Qaida e più tardi, inoltre, gli ispettori Onu confermarono che non erano state trovate armi di distruzione di massa.
Mentre la "coalizione dei volenterosi" impegnò complessivamente nel corso degli anni circa 300mila soldati, provenienti da 38 Paesi, gli iracheni erano almeno 400mila soldati regolari, oltre ai componenti della Guardia Repubblicana. Anche altre nazioni diedero indirettamente il proprio sostegno all'operazione, ma dal 2004 la coalizione cominciò ad assottigliarsi, prima tra tutte a lasciare il Paese fu la Spagna. L'Italia, la cui base principale era Nassiriya, si ritirò nel 2006, mentre le ultime unità statunitensi e britanniche se ne andarono nel 2011.
La guerra in Iraq è costata ai contribuenti americani 1700 miliardi di dollari, con altri 490 miliardi per l'assistenza ai reduci di guerra. Ad attestarlo uno studio pubblicato recentemente dal Costs of War Project, un progetto che stima i costi dei conflitti, del Watson Institute for International Studies della Brown University.
La ricerca, a cui hanno lavorato una trentina di esperti, fa anche una stima dei costi umani della guerra che ha ucciso almeno 134mila civili iracheni e contribuito alla morte di un numero almeno quattro volte superiore di iracheni in anni di continua instabilità.
Il rapporto fa infine uno studio combinato dei costi dei conflitti in Iraq, Afghanistan e Pakistan, parlando di un totale di quasi 4mila miliardi.
E che dire del kamikaze che ha pianto? Ecco ancora cosa scrive M. Terragni
Perché poi un terrorista kamikaze è questo:
Un ragazzino di 20 anni mandato a morire perché Allah è grande, perché lo hanno convinto che il jihadista non muore davvero (“Non considerate morti coloro che sono stati uccisi sul sentiero di Allah, sono invece vivi e godono della provvidenza del loro Signore“, Corano, terza Sura, versetto 169), ma che un momento prima di partire per la sua missione scoppia in un pianto disperato, perché inaspettatamente la vita gli urla dentro.
Come si ferma uno shahid? Che cosa dobbiamo essere capaci di dirgli, per convincerlo a vivere e a non uccidere? E come dirglielo? Qual è il punto che stiamo mancando? Quale la strategia che non stiamo attuando? Ed è pensabile poter procedere per via di umanità?
Quel pianto ci dà qualche indizio? Non somiglia, quel maledetto piagnucoloso bambino assassino, a uno dei nostri figli?
Dov’era sua madre, in quel momento? Che cosa è stato fatto a lei, per ridurla al silenzio?”
Io trovo la mia risposta in lei: Aïcha El Hajjami -(Via Dogana n. 111, dicembre 2014)
"La jihâd di cui abbiamo bisogno è quella del pensiero. Ha un nome nella nostra cultura: l’ijtihâd. Sì, è dell’itjihâd che abbiamo bisogno per rinnovare il nostro spazio culturale e trasmettere i veri valori dell’islam alle nuove generazioni: i valori di pace, fraternità, giustizia e uguaglianza. Questa è la responsabilità di tutti e di ciascuno di noi, potere politico, società civile, cittadini e intellettuali, uomini e donne. Anch’io sono scivolata nell’utopia? Mi permetto di sognare!
(Traduzione dal francese di Silvia Baratella, Via Dogana n. 111, dicembre 2014)